Primi amori 2a parte (Silvia)
Tratto dal libro: LA MINIERA DEI BOTTONI
Il mio invece era un amore sofferto, ovviamente a senso unico, per il nuovo bigliettaio della corriera.
Quasi tutte noi studentesse subivamo il fascino di autisti e bigliettai, anche se attempati, anche se burberi. Se poi svolgevano tutte e due le mansioni, il fascino era moltiplicato per due, come nel caso del nuovo assunto. Ne ero talmente affascinata da non accorgermi che il novantanove per cento delle ragazze lo era altrettanto, in misura più o meno intensa. Egli aveva un fascino particolare e sempre gentile con tutti. Lo caratterizzava una bellezza insolita in un uomo, con pelle liscia, occhi scuri, naso perfetto, bocca carnosa che lasciava intravedere denti regolari e bianchissimi. Capelli morbidi che incorniciavano un viso aperto e sempre sorridente. L’impeccabile uniforme grigio-azzurra gli conferiva un aspetto distinto e signorile, in contrasto con quello dei suoi colleghi e predecessori, che sembravano piuttosto dei rudi carrettieri. Un modo di fare in sintonia. Verso di lui, tutti i viaggiatori compreso il folto gruppo chiassoso degli studenti, manifestavano un ossequioso rispetto. Aveva introdotto nel linguaggio lo “scusi”, il “prego” e il “grazie”, parole che prima di lui sulla corriera non s’erano mai udite.
Quando mi passava vicino nella corsia, trattenevo il respiro per paura di alitargli addosso. Poi seguivo con la coda dell’occhio ogni sua mossa e lo osservavo con invidia mentre elargiva sorrisi particolari e qualche carezza ad alcune ragazze più carine delle altre, ripetenti già cresciute. In cuor mio desideravo diventare una ripetente anch’io e forse, se fossi cresciuta come loro avrei potuto un giorno godere di una sua carezza. E soffrivo in silenzio non potendo esternare a nessuno il mio segreto, per non venir derisa.
“Tu, innamorata di Fabio? Ma chi ti credi? – mi avrebbero sicuramente detto – Lui non ti vede nemmeno, perché guarda solo le belle ragazze e le professoresse giovani e il sabato non ha occhi che per la figlia del suo padrone, il proprietario delle corriere. Credo siano fidanzati perché sono sempre lì che parlottano assieme”.
Per non sentirmi dire queste cose, tenevo tutto dentro di me e non mi confidavo nemmeno con Angela. Era una di quelle classiche infatuazioni da adolescenti, acute, dolorose, che oltre al cuore colpiscono cervello e stomaco e con l’appetito si portano via tutta la voglia di studiare. Vivevo nella speranza di un suo sguardo, di una parola, ma lui non mi considerava, non mi vedeva affatto, cosicché per consolarmi, dovetti rifugiarmi nel sogno e nella fantasia, dove tutto può accadere.
Immaginavo che la corriera non riuscisse ad affrontare un tornante e rotolasse nella scarpata e che lui rimanesse ferito mortalmente. Fra tutti i viaggiatori io sola rimanevo incolume e io sola potevo occuparmi di lui alleviandogli le sofferenze. Riconoscente, egli si abbandonava fra le mie braccia, confessandomi prima di spirare, che da tanto tempo mi amava, ma che non aveva mai avuto il coraggio di dirmelo.
Così sognando, alleviavo le mie pene d’amore.
Un giorno inavvertitamente, mi pestò pesantemente un piede. Avrei voluto gridare per il dolore, ma non lo feci e prima che lui potesse notare la mia espressione quasi soddisfatta, che avrebbe potuto fargli credere di non avermi procurato alcun male, mi diede un buffetto sulla guancia e abbassandosi fino a incontrare i miei occhi, mi sussurrò con dolcezza: “Scusa tesorino, mi dispiace tanto!”.
Era il massimo che potesse succedermi! Sentivo che da lì in avanti mi sarebbe stato debitore a vita. Infatti, ogni qualvolta mi passava accanto, dopo avermi inebriato con il suo profumo, sostava un attimo, dava un’occhiata ai suoi piedi e fingeva di spostarli più di quanto avrebbe dovuto, per evitare di pestare un’altra volta i miei. Fui tentata più volte di infilare il mio piede di proposito sotto il suo, per sentirmi dire un’altra volta quel: “Scusa tesorino, mi dispiace tanto!”, accompagnato dal buffetto sulla guancia. Il grande inconfessato amore, si esaurì per stanchezza con i primi tepori dell’estate.
Silvia
Ci fu un’estate diversa da tutte le altre.
L’amicizia con Angela si era incrinata. Mi sembrava che dedicasse troppo tempo alla sua famiglia che a primavera si era arricchita di un fratellino, di cui andava secondo me, esageratamente fiera. All’entusiasmo iniziale nel quale mi aveva coinvolta, seguì da parte mia un senso di profonda delusione, tanto da soffrirne. Ci incontravamo raramente e quando questo avveniva non era mai possibile parlare di niente, programmare niente, perché lei teneva sempre in braccio quel piagnucolone di fratellino sul quale concentrava tutte le sue attenzioni.
Sapevo che lei da qualche mese, era diventata signorina a tutti gli effetti e notavo un compiacimento particolare mentre si atteggiava a ragazza seria e matura e come tutte le neo signorine faceva pure la misteriosa, ma passandomi vicino, non perdeva l’occasione di ostentare i suoi due bernoccoli. Poi però mi dava addirittura l’impressione che volesse evitarmi. La sua latitanza mi aveva fatto avvicinare di più alle altre ragazze e tra queste alcune giovani villeggianti che trascorrevano in paese tutti i mesi estivi. Erano da noi sempre ben accolte e trattate con grande riguardo. Il loro aspetto curato, i loro vestiti moderni, l’assenza di trecce, ma soprattutto la loro spontaneità, attiravano attenzioni e simpatie. E poi conoscevano giochi nuovi, erano state al cinema, al mare e anche in colonia. Riuscire ad accattivarsi l’amicizia di una villeggiante era un vanto, di cui andare fiere.
Io le ammiravo al punto da sentire il desiderio di assomigliarle. Quand’ero sola, mi mettevo davanti allo specchio e cercando di imitare la loro espressione serena, scioglievo i capelli e li legavo a coda di cavallo, pettinatura che da noi era quasi proibita. Poi cercavo di sorridere e perfino di modificare il mio atteggiamento, soprattutto in casa; più educato e meno provocante. Arrivavo ad orari giusti, disobbedivo raramente e nascostamente mi esercitavo nella pronuncia del dialetto trentino, che mi sembrava conferisse a chi lo parlava, un fascino particolare.
Ma Angela mi mancava, non resistevo senza la sua presenza, i suoi pareri, i progetti comuni, le risate. Ogni tanto, con una scusa qualsiasi, mi avviavo verso casa sua, come calamitata, ma mentre le parlavo, lei mi ascoltava un po’ assente e dopo un po’ me ne andavo più delusa che mai, perché avevo capito che non avevamo quasi più nulla da dirci.
Capivo che non mi considerava più degna della sua attenzione e amicizia, in barba alle promesse reciproche di volerci bene nella buona sorte e nelle difficoltà, di qualsiasi genere esse fossero, e di rimanere amiche fino alla morte. Ma ciò che più mi angustiava era il fatto che lei mi aveva preceduta nel processo di trasformazione adolescenziale, pur essendo lei di parecchi mesi più giovane di me. Invece a me non succedeva nulla, così un po’ alla volta maturai la convinzione di non essere del tutto normale e di avere poche speranze di diventare signorina come lei, come mia sorella e le mie cugine. Ogni giorno esaminavo nascostamente il mio petto, per scorgervi eventuali aumenti di volume. Nulla!
Era un periodo contrassegnato da una grande tristezza e nulla riusciva a consolarmi, nemmeno il pensiero che a ottobre mi sarei trasferita a Trento da una zia, per iniziare gli studi, come aveva suggerito il maestro ai miei genitori.
…Un pomeriggio mentre sciacquavo dei panni alla fontana…
(Continua il mese prossimo…)