Primi amori
Tratto dal libro: LA MINIERA DEI BOTTONI, di Antonietta Dalpiaz Breda
Frequentare la Scuola Media negli anni Cinquanta era facoltativo e costituiva una opportunità solo per ragazze o ragazzi, particolarmente dotati provenienti da famiglie benestanti, o sfuggiti alla “longa manus” del Seminario. Molte delle persone infatti che oggi occupano posti di rilievo come politici, medici, avvocati, direttori di banca o direttori didattici, con i natali databili tra il “Quaranta” e il “Cinquanta” originari dei paesini, devono la loro laurea e la posizione sociale, all’iniziale permanenza in Seminario. Il successivo abbandono non interruppe tuttavia i loro studi, che continuarono solo con rotta e obiettivi differenti. Molti di coloro che scelsero di rimanervi divennero invece bravi sacerdoti.
Io, oltre a non essere un ragazzo e a non provenire da una famiglia benestante, non ero nemmeno particolarmente dotata. Avevo scelto di proseguire la scuola per due soli motivi. Primo, perché non mi entusiasmava il lavoro al magazzino a “passare” mele per dieci ore al giorno, al freddo e con i geloni che torturavano mani e piedi. Secondo, e più importante, perché me l’aveva chiesto Angela e non potevo accettare che facesse una cosa senza di me. La nostra bicicletta sarebbe stata irrimediabilmente tagliata a metà.
L’unica Scuola Media della Valle di Non era a Cles e lì confluivano gli studenti provenienti da tutta la valle. La corriera arrivava puntuale alle sette e venti, ma Angela ed io per paura di arrivare in ritardo, eravamo al negozietto di alimentari della piazza già alle sette e cinque. A quell’ora i clienti erano pochi e trascorrevamo il quarto d’ora di attesa spostandoci in qua e in là, a seconda dello spazio a disposizione. Nei pochi metri quadrati liberi dai sacchi di farina, pasta, semola e zucchero, c’era posto a mala pena per quattro potenziali clienti a sporta vuota; solo per tre se a sporta piena o con cartella. Noi non eravamo clienti e pertanto, la nostra presenza non era gradita. Ma il freddo fuori era pungente e perciò sopportavamo con indifferenza i colpetti di scopa sulle scarpe che il gestore ci assestava, per farci capire che davamo fastidio. Noi facevamo finta di niente e lo angustiavamo con la nostra scomoda presenza per i quattro mesi più freddi.
Quando la corriera arrivava a Terres, era già piena e traboccante di studenti, professori pendolari e lavoratori. Sapendo che il bigliettaio non gradiva gente in mezzo alla corsia, dopo avergli allungato l’abbonamento per la punzonatura, cercavo di infilarmi come terza in mezzo a due compagne. Lo stare in piedi, oltre a suscitare le ire del bigliettaio, esponeva noi ragazzine, al rischio di diventare il bersaglio delle cattiverie dei ragazzi di terza, alcuni dei quali ripetenti, di quindici o più anni. Noi di Terres eravamo conosciuti come i più educati, forse perché i più timidi e proprio per questo i più adatti sui quali sfogare l’aggressività dovuta alle tempeste ormonali in atto o appena superate.
Una mattina, Angela, con grande sorpresa, si sentì invitare da un ragazzo di terza a sedersi accanto a lui. Inspiegabilmente il posto era ancora libero.
Questo successe per tre quattro giorni di fila, finché ci venne il dubbio che lui glielo riservasse di proposito. Solo Roberto poteva permettersi un posto vuoto accanto al suo quando c’erano ancora molte persone in piedi. Lui era il nipote del proprietario delle corriere e il bigliettaio nulla poteva nei suoi riguardi, anzi lo trattava con il rispetto che usava verso le persone adulte. Roberto era un bel ragazzo alto, educato e di famiglia benestante.
Questo era intuibile non solo dal taglio dei capelli e dalla cartella nuova, ma soprattutto dal vistoso apparecchio dentale, cosa da ricchi, che ostentava come uno status symbol, sorridendo spesso, ma con una certa discrezione, perché anche lui era inguaribilmente affetto dalla nostra stessa malattia: la timidezza. Era però sufficientemente audace da imporre che il posto accanto al suo rimanesse libero per poterlo offrire ad Angela, quando spinta dall’orda degli studenti gli arrivava vicino. Lei, con la sua aria angelica, accettava sorridendo il posto che lui le riservava. Mentre si scambiavano un rapido ciao, la aiutava a sistemare la cartella, dopodiché puntavano entrambi lo sguardo verso l’infinito, senza muoversi, senza dirsi più una parola. Così per giorni, per settimane.
Finché Angela mi chiese cosa ne pensassi.
“Secondo me è innamorato” fu la mia risposta scontata e in fondo quella che si aspettava.
“Lo penso anch’io” ammise lei felice e mi parlò della strana sensazione che provava standogli accanto. “Mi sento come un formicolio in tutto il corpo e qualche volta mi viene una strana sensazione allo stomaco come quando viene da vomitare. Però è bello! E mi tremano pure le mani. Tu pensi che sia meglio dirlo a mia mamma?”
“Secondo me non è ancora il momento; io aspetterei a dirglielo quando ti chiederà di fidanzarsi con te. Tu gli vuoi proprio bene da volerlo un giorno sposare?” le chiesi con un misto di curiosità, premura e invidia.
“Credo proprio di sì”, mi confessò con sincerità.
Era un amore molto bello, intenso e silenzioso, ricco di pause, di sguardi timidi e di rossori nascosti. Io sola ne ero a conoscenza. Stranamente non mi sentivo gelosa, anzi, ero molto felice per lei, ma come amica del cuore, mi sentivo in dovere di vegliarla in un momento così particolare.
Avevo preso l’abitudine di appostarmi nella poltroncina dietro di loro, schiacciata in mezzo a due mie compagne, con la fessura tra i due schienali proprio davanti agli occhi. Era l’osservatorio ideale per verificare l’evolversi della situazione e gli eventuali sviluppi. Se volevo elargire consigli, dovevo tenermi costantemente aggiornata. Non perdevo la minima mossa delle loro teste e delle loro mani, né mi lasciavo sfuggire il movimento degli occhi di lui che andavano dal libro aperto sulle ginocchia a fugaci occhiate dal finestrino.
Osservavo con attenzione la sua mano in apparenza immobile, spostarsi impercettibilmente verso la mano di lei, fino quasi a toccarla. Avrebbe dovuto sembrare uno sfioramento casuale, dovuto a una frenata della corriera, o quando questa affrontava una curva, ma lei appena avvertiva il tocco, forse per paura di concedersi troppo e spezzare l’incantesimo, spostava velocemente la mano, come se una mosca fastidiosa l’avesse presa di mira.
Lui non si dava per vinto e con lo sguardo sul libro e una finta espressione concentrata, riprendeva con micro-movimenti l’avvicinamento alla mano di lei, piccola, delicata e invitante, appoggiata con nonchalance non molto lontana dalla sua.
Un giorno, dopo settimane di pazienti appostamenti, ebbi la fortuna di assistere alla premiazione dei suoi tentativi pedissequi. Come preso da un raptus, la sua mano con mossa fulminea da gatto-topo, afferrò quella di lei. Vidi luccicare il suo apparecchio dei denti. Fu un atto di grande coraggio, forse studiato per giorni a tavolino. Angela rimase apparentemente imperturbabile, ma non ritirò né tentò di ritirare la mano che rimase stretta in quella di lui, nascosta appena dal libro aperto, fino quando la corriera giunse al capolinea.
Il rituale “mano nella mano” continuò per mesi, finché terminò l’anno scolastico.
Il mio invece era un’amore sofferto, ovviamente a senso unico….
(Continua il mese prossimo…)