Amarcord la mitica cotognata

Amarcord la mitica cotognata

Potrà sembrare irriverente o fors’anche sacrilego, nella patria delle mele e nel Regno di Melinda, parlare di mele (e pere) cotogne. Mi ha spinto a proporre ai lettori de “il Melo” questo “divertissement” giornalistico un ricordo di gioventù legato a quelle golose barrette gelatinose e zuccherate chiamate “fruttini” di mele cotogne. Ricordo anche i nomi delle aziende che producevano questi dolci peccati gola: le confezioni della Zuegg ad esempio, la cotognata in pani della Lazzaris, il cremifrutto dell’Althea. Quest’ultima ghiottoneria, in particolare, era la mia preferita poiché in ogni asticcio vi era la foto a colori di una squadra di calcio (una delle mie tante collezioni, assieme ai francobolli, collezioni oggi sostituite dalle migliaia di menu di ristoranti stellati e non che ho frequentato nei miei tour enogastronomici in Italia e nel mondo).

Una storia antica che parte dai Babilonesi

E allora parliamone. Prima di tutto va precisato che non esiste differenza alcuna tra la mela cotogna e la pera cotogna poichè entrambe appartengono allo stesso albero, il cotogno (Cydonia oblonga, per via della forma allungata), albero da frutto della famiglia delle Rosacee che oltre al cotogno comprende il melo, il pero, il ciliegio, il pesco, l’albicocco, il susino, il mandorlo, il nespolo, il sorbo.

Il cotogno, coltivato già dai Babilonesi nelle zone del Mar Caspio, dai Greci (sembra che il nome scientifico, Cydonia, provenga proprio da questa località dell’isola di Creta) e poi dai Romani, frutto dalla forma irregolare, dal sapore asprigno e dal profumo inebriante, secondo la mitologia greca era presente nel Giardino delle Esperidi ed era considerato sacro ad Afrodite, la dea dell’amore e della bellezza.

Ne hanno parlato Apicio, Plinio, Marziale, Plutarco e mille altri scrittori e filosofi dell’antichità. La mela cotogna è presente anche in molti quadri del Rinascimento. Il più famoso è il dipinto della Madonna col Bambino del pittore veneziano Giovanni Bellini: sia Gesù bambino che la Madonna accarezzano una mela cotogna, simbolo – secondo alcuni studiosi – della resurrezione.

Nella Grecia antica era il simbolo della fertilità

Nella Grecia antica la mela cotogna era il simbolo della fertilità. La sposa – racconta il filosofo greco Plutarco – quando entrava nella casa dello sposo portava in dote una mela cotogna come segno benaugurante di un matrimonio felice da condividere in occasione della prima notte di matrimonio. Sia i Greci che i Romani apprezzavano le mele cotogne con il miele o come bevanda (il sidro). In farmacologia, invece, durante la fioritura si utilizzavano i fiori per ricavarne un unguento che veniva usato come collirio per gli occhi.

In passato le famiglie contadine utilizzavano le mele cotogne per profumare la casa, in particolare gli armadi. Più recente, invece, l’utilizzo in cucina per la preparazione di confetture, mostarde, conserve, marmellate e gelatine.

Ilaria Gozzini Giacosa, autrice dello splendido volume “A cena da Lucullo” sottolinea come la frutta comparisse sulle tavole dei Romani in grande quantità e varietà. “Ab ovo usque ad malum”: alla frutta con la precisazione che il termine “malum” non indica solo le mele, ma anche le pere, le cotogne, le melograne, le prugne, le more di rovo e di gelso.

Quella peccaminosa gelatina chiamata cotognata

Sempre riferendoci al passato, è da aggiungere che nel Medioevo la famosa cotognata era prodotta con il miele, anziché con lo zucchero. Lo ricorda l’umanista cremonese Bartolomeo Sacchi detto il Platina nel suo “De honesta voluptate et valetudine”, il primo libro di cucina stampato dall’Officina romana di Ulrich Han nel 1467. In quell’epoca, infatti, lo zucchero era considerato un bene di lusso e a tal fine era stata emanata una legge per limitarne il lusso e lo sfarzo al pari della morigeratezza che la popolazione doveva mantenere nell’abbigliamento. Tornando ai giorni nostri, molti sono i ristoranti che propongono la cotognata sotto forma di piccola pasticceria a fine pranzo. Da standing ovation le barrette gelatinose proposte da Nadia Santini, titolare con il marito Antonio e i figli Giovanni e Alberto del ristorante 3 stelle Michelin “Dal Pescatore” di Canneto sull’Oglio (Mantova). Per lei, proclamata miglior lady chef del mondo, la cotognata è una religione. Sceglie da un contadino della zona le mele cotogne migliori (il ristorante è al centro della riserva naturale del parco del fiume Oglio, equidistante da Mantova e Cremona, le città che si contedono la primogenitura della mostarda e della cotognata) e le trasforma in un’autentica leccornia.

Pianta spontanea, è coltivata in molte regioni

Il cotogno come pianta spontanea è presente in molte regioni della nostra Penisola, ma è coltivata solo in pochi terreni agricoli del Veneto, della Lombardia, della Puglia, della Campania e della Sicilia. Alcune località italiane portano addirittura lo stesso nome della pianta: Codognè, ad esempio, un piccolo comune della provincia di Treviso, ogni anno a metà ottobre organizza la Festa dedicata a Sua Maestà la mela cotogna. In Lombardia troviamo poi Codogno, cittadina in provincia di Lodi, che ha come stemma una simbolica pianta di cotogno carica di frutti, mentre una benemerita associazione culturale ne perpetua la tradizione.

Le proprietà benefiche di questo frutto

La mela cotogna è ricca di proprietà benefiche, preziosissime per l’organismo. La sua altissima concentrazione di pectina – una fibra alimentare solubile con proprietà addensanti, stabilizzanti e gelatinizzanti – ne fa un alleato naturale per il benessere dell’intestino. In particolare, il consumo regolare di mela cotogna è indicato per controllare i livelli di colesterolo e la glicemia nel sangue, per prevenire diverse patologie cardiovascolari, per aiutare l’apparato digerente grazie all’apporto di acido malico, per contrastare la stitichezza, per combattere le infezioni gastriche e intestinali. Insomma una panacea.

El smacafam

Magnar el smacafàm l’è vecia usanza

che se rinova ‘l di de zòbia grassa

per coronar le voie de la panza

che gòde l’ carneval, prima che’ l passa.

E capita anca adès che ‘na taolàda

de amizi se raduna per zugar

entant che la paròna ‘ndafaràda

prepara la farina da ‘mpastar…

Scominzia i zugadóri ‘na partìda,

le dòne le pastizza la ricèta:

devnterà na lovarìa saorida

col mèterghe lugànega e panzèta.

Farina, lat e sal: le man usàde

pietanze de ste chi n’ha fate tante!…

Fòr óltra screpetéza le risàde

dei òmeni che smaca ‘l cul al fante…

E quando le partìde l’è ruàde

tra briscole che odora de salam,

ariva ‘na tàola ‘l vin e le posàde

per farghe al piat del smacafam!

Fabrizio da Trieste

(Da “L’antologia di Fabrizio da Trieste”, ed. Il Melo 2024)

Casagrande Giuseppe