TRADIZIONI NATALIZIE
Il cuore dell’inverno batte in dicembre ed in gennaio; prima e dopo ci sono anticipi e code, sebbene la neve possa cadere, nella Val di Sole, in tutti i mesi dell’anno.
Già da fine novembre si annuncia la stagione più rigida: “Sant Andrea el ven – co la so famea”: la famiglia di S. Andrea, che ricorre il 30 novembre, è costituita da freddo, brina e neve.
Ma la legnaia a ben piena, il maiale vive inconsapevole le sue ultime giornate rimpinzandosi per il padrone, i bambini vanno a scuola imbaccuccati fino al naso illividito dal vento di tramontana.
Poi arriva una festa molto attesa: S. Lucia, il 13 dicembre.
“Santa Luzia – con la scufia”, anche lei vestita dall’inverno, ma carica di doni. Da qualche parte arriva la notte fra il 12 e il 13; però ai masi alti di Rabbi viene soltanto verso sera del 13, perché è dovuta andare a rifornirsi al mercato. Quel che conta, però, è che giunga ben curva sotto il peso dei regali. Alla vigilia i ragazzi più grandicelli vanno in giro con campanacci e campanellini, per richiamare l’attenzione della Santa e per far venire i brividi dell’attesa ai più piccoli.
Un tempo si metteva alla finestra anche il piatto con la semola per l’asinello di S. Lucia; ed al mattino il piatto era pieno di arance, mandarini, “carobole”, torrone, noccioline americane.
II proverbio accompagnava anche questi momenti con un detto misterioso: “Santa Lucia – la notte più lunga che ci sia”. Oggi il proverbio non corrisponde più alla realtà, perché la notte più lunga e quella del solstizio d’inverno, il 22 dicembre. Però, fino a quattro secoli fa, esso era esatto.
II calendario allora in vigore era in ritardo sul calendario astronomico di dieci giorni. La riforma di Papa Gregorio XIII nel 1582 stabili che da mercoledì 4 ottobre si passasse direttamente saltando appunto dieci giorni a giovedì 15 ottobre.
Con quella decisione in Occidente si abbandonava dopo sedici secoli il calendario giuliano (voluto da Giulio Cesare nel 46 a. C.) per adottare il calendario gregoriano, che seguiamo ancor oggi. Invece nell’Europa orientale, di religione cristiana ortodossa, si segue ancora il calendario antico, che è attualmente in ritardo di tredici giorni in confronto a noi (il nostro 1° dicembre per gli ortodossi e it 18 novembre).
Quando valeva il vecchio calendario risultavano più comprensibili anche gli altri due proverbi: “Da Nadal – el pas de ‘n gal” e “Da l’Epifania – en pas de na stria”. Essi segnalavano la progressiva maggior durata dei giorni sempre partendo dalla data di S. Lucia, non dal 22 dicembre.
Fra S. Lucia e Natale c’era la novena natalizia. con la chiesa che risuonava di ritornelli dolci e nostalgici davanti al grande presepio in preparazione su un altare laterale.
In casa il piccolo presepio in cartone colorato si tirava fuori solo alla vigilia, e si metteva sulla cassapanca fino all’Epifania.
La vigilia di Natale era un giorno di digiuno e di astinenza, come sentenziava il proverbio: “Le veie de Nadal e de la Madona d’agost- dezuna arca i osei del bosch”.
In molti paesi, dal pomeriggio alla notte, giravano i ragazzi con un piccolo presepio in una cassettina con il frontale di vetro, di casa in casa, a cantare nenie natalizie ed a ricevere piccoli regali.
La mattina di Natale si andava in chiesa dove si celebravano tre Messe (una molto di buon ora, una subito dopo di seguito ed un po’ affrettata, una in canto verso le dieci).
Il pranzo natalizio era più abbondante del solito, ma senza panetttone. Arrivava invece in tavola un dolce detto “zelten”, caro a tradizione trentina e tirolese, zeppo di frutta secca e di canditi.
Durante la sera della festività si girava per tutti gli ambianti di casa e nella stalla, a benedire i locali e le bestie domestiche con lo scaldaletto colmo di braci, su cui fumigavano alcuni grani d’incenso. In qualche paese questa usanza era invece portata alla sera dell’ultimo dell’anno.
Frattanto il mese celebrava le sue giornate di freddo: ma attenzione: un Natale col sole significava una Pasqua “col stizòn”. come recita il proverbio, che avverte anche “Dezembrin – canaia e berechin”, per dire che gelo e sorprese di neve non mancano ma nell’ultima parte dell’anno.
Il primo di gennaio si correva a vincere la buona mano con la frase recitata a precipizio “Bon di bon an – la to bona man” oppure “Bon di – la bona man a mi”.
Si ottenevano cosi le famose “biganate” (forse dal tedesco Weihnachten, cioè Natale), i doni natalizi, di cui erano larghi nonni e padrini (“ghidazi”).
Ed era subito il 6 gennaio, quella “Epifania – che tutte le feste la porta via”. Durante la vigilia della festa si usava preparare la stella a cinque punte, rivestita di carta di vari colori, che lasciava trasparire il chiarore vacillante della candela accesa al centro.
I ragazzi andavano, come per Natale, di casa in casa e con un marchingegno facevano girare la stella, cantando “Deh, sorgi amica stella – la pace ad annunciar”.
Tre dei cantori improvvisati erano vestiti da Re Magi, uno bianco di farina, uno nero di fuliggine, uno rosso (sulla faccia si faceva passare la carta velina bagnata delle copertine dei quaderni di scuola).
Al termine della recita, a volte, si cantava un ritornello propiziatorio che ricordo molto bene: “Noi siamo i tre Re – venuti da Magrè – o pinza o torta o mòsa – vogliamo qualche cosa”. E qualcosa arrivava sempre dalle tasche dei grandi.
Finite le feste, continuava “Genaròn – dai denti longhi”, con i suoi Santi portatori di neve: S. Mauro, S. Romedio, S. Antonio abate. Nella ricorrenza di quest’ultimo veniva benedetto il sale per gli animali domestici. E le scorpacciate, le tradizioni e le nostalgie del tempo natalizio venivano riposte nel cassetto della memoria, per l’anno successivo.