“ERA Ottobre” mi ricordo che…

“ERA Ottobre” mi ricordo che…

Passato settembre, all’improvviso e con maggior evidenza, ci si accorgeva che al mattino il sole si alzava più tardi e la sera tramontava più presto. Le giornate si accorciavano a vista d’occhio.

La temperatura era mite; spesso, però, al mattino gli orti e i prati erano coperti di rugiada. La brutta stagione si stava avvicinando. Occorreva affrettarsi per portare a casa i sudati raccolti.

S’incominciava con la vendemmia. Propedeutica a questa operazione era la stagnatura dei recipienti di legno destinati a contenere il mosto e il vino.

Qualche settimana prima del raccolto, i contadini, dopo averle ben pulite dalle vinacce e dal tartaro incrostato sulle doghe, portavano le botti all’aperto.

Sul cortile esse venivano continuamente riempite di acqua per stagnare le eventuali perdite. La stessa cosa si faceva con i tini e le bigonce.  Dal carro si toglieva il pianale (s-cialar) e si mettevano due legni (vegoi) sui quali si  appoggiava il tino.

La vendemmia teneva occupata tutta la famiglia e, alle volte, pure i parenti,  gli amici e i vicini di casa. Più che un lavoro  sembrava una festa. Era un momento di gioioso ritrovo e di  socializzazione. Durante lo stacco dei grappoli le donne conversavano fra di loro, oppure cantavano allegre canzoni. Sotto le pergole si sentiva un gran vociare e un fiorire di battute scherzose. Il padrone, di solito, era impegnato a svuotare la bigoncia. Una volta arrivato a casa, egli pigiava l’uva e  quindi travasava il mosto nelle botti. I contadini più avveduti segnavano con il gesso, su un’assicella, il numero dei recipienti svuotati per fare un confronto con la  quantità prodotta l’anno precedente. Per alcuni giorni bisognava tenere sotto controllo l’ebolizione del graspato. Terminata questa fase, finalmente, si poteva assaggiare il dolce mosto e poi, durante l’inverno, sorseggiare il buon vino, frutto di tante sudate fatiche. Qualcuno conservava dei grappoli d’uva per l’inverno; venivano appesi al soffitto di una camera o stesi su un gratticio in soffitta. Normalmente l’uva appassita si conservava fino a Natale. Con la vendemmia le viti cambiavano volto. Il verde delle foglie cedeva il posto alle calde tonalità del giallo e del marrone. Poi, con il primo venticello, si staccavano dalla pianta e, una volta decomposte, vevivano assorbite dal terreno che le aveva generate la primavera precedente.

I contadini passavano poi alla raccolta del mais staccando ad una ad una  pannocchie dalla pianta. Una volta portate a casa queste venivano sistemate sull’aia o sui “somassi”, in grandi mucchi, in attesa della successiva lavorazione che avveniva parecchio tempo dopo, al termine dei lavori agricoli più urgenti.

Di sera, dopo cena, si invitavano  gli amici e i parenti e, tutti assieme, si sedevano sul mucchio del mais a scartocciare le pannocchie (sfoiar). Si levavano tutte le brattee esterne  e si lasciavano alcune interne. Successivamente gli uomini legavano, a mazzi, con dei vimini, circa dieci pannocchie (colmi) alla volta. Questi venivano, poi, appesi ad essicare sulle “are” o sui poggioli. 

Queste serate autunnali si svolgevano in un clima di festa, di allegria e di buon umore.  Durante la serata  si  raccontavano le ultime notizie , i pettegolezzi del paese o le storie d’altri tempi. Alle volte si cantava tutti in coro. Per i giovanotti questa era  una buona occasione per trovarsi e fare quattro chiacchiere con le loro coetanee; finito il lavoro, magari, si presentava anche l’occasione per accompagnarle furtivamente verso casa. Alle volte, per render il lavoro meno noioso, invitavano un fisarmonicista del posto portando così un ulteriore tocco d’allegria alla serata.  Al termine, solitamente, la padrona di casa offriva ai convenuti delle pere cotte con un bicchiere di vino novello.

I tutoli  (zigotòi) servivano come combustibile, mentre una parte delle brattee, debitamente lavate, erano usate per rinnovare il contenuto dei pagliericci (paioni).

Gli steli del mais (miare), durante l’inverno, erano tagliati in piccoli pezzi  ed usati come lettiera per le mucche. (farlet).

OTTOBRE era anche il mese della raccolta della frutta. Questa operazione non richiedeva molto tempo perché le piante erano pochissime; erano sparse nei prati, una qua e una là, molto distanti fra loro. In genere erano meli della varietà “Renetta del Canada” oppure pere della varietà “Curato” detta anche “Spadona”.

La frutta, una volta raccolta, era trasportata fino casa nelle “bene” foderate con la paglia. In seguito era ammucchiata per terra in camere disabitate.

Una delle ultime incombenze  era quella di raccogliere le rape, le verze e i cavoli  serviti, più tardi  per preparare i crauti.

Prima che il terreno gelasse  si aravano i campi per la semina del frumento, dell’orzo e della segale. Detti  lavori, normalmente, occupavano tutta la famiglia, compresi i ragazzi che per questo motivo ottenevano l’esonero dalla scuola. Le ore d’insolazione diminuivano e il freddo cresceva. Tutto, lentamente, si avviava verso il lungo letargo invernale. I camini, dopo aver dormito tutta l’estate, improvvisamente, come nei cartoni animati, si mettevano a fumare. I girasoli negli orti chinavano il capo e le rondini partivano verso mete lontane. Mancava il loro allegro cinguettio. Mancavano anche le grida dei ragazzini che solitamente giocavano sui cortili. Dove erano andati?

A scuola, fin  dal primo giorno d’ottobre. Come era diversa quella scuola rispetto a quella dei nostri giorni!

Quanto ci sarebbe da dire su questo tema. Purtroppo il nostro spazio non ce lo consente. Sarà, forse, per una prossima occasione.

Piero Turri