La giornata mondiale del risparmio

La giornata mondiale del risparmio
Immagine di freepik

Qualche giorno fa una persona di mezza età mi ha detto “I miei genitori mi hanno insegnato a risparmiare ed io mi sono applicato con impegno e sono riuscito ad accumulare un bel gruzzoletto, ma purtroppo non mi hanno insegnato ad investire e sono in difficoltà”.

Prendo spunto da questa frase, dal momento che il 31 ottobre ricorreva la centesima Giornata Mondiale del Risparmio, per sottolineare che quella sopra descritta è la situazione in cui si trova la maggioranza dei risparmiatori italiani.

In occasione della Giornata Mondiale del Risparmio i media italiani si sono impegnati per evidenziare come le percentuali di risparmio delle famiglie siano in forte riduzione, ma nessuno ha detto chiaramente quello che ha dichiarato con estrema semplicità il risparmiatore citato in precedenza.

Spesso si sente dire che i giovani non risparmiano più come accadeva per le vecchie generazioni, ed infatti è proprio così: fino ai primi anni novanta, il tasso di risparmio medio delle famiglie era intorno al 25% del reddito, con punte a quasi il 30% (vedi grafico a destra). Spinto dal boom economico dopo il secondo dopoguerra e dalle generose pensioni degli anni ’80, il tasso di risparmio ha intrapreso un percorso di costante calo con la crisi di inizio anni ’90, quando per mantenere il livello dei consumi si è intaccata la propensione al risparmio. L’arrivo dell’euro, la forte riduzione dei tassi di interesse sui prestiti, le crisi finanziarie e per ultima la pandemia hanno accentuato ancor più questo trend, per arrivare ai giorni nostri in cui si risparmia meno del 10% del reddito annuo.

Risparmiare significa trasferire risorse dal presente al futuro. E l’allungarsi del periodo tra il momento del risparmio e quello dell’effettivo utilizzo accentua il problema della scarsa cultura finanziaria degli italiani. Se nella seconda metà del ‘900 l’obiettivo principale del risparmio era l’acquisto della prima casa e la creazione della famiglia, ora i motivi per cui è importante accumulare risparmi sono sempre di più in un contesto in cui le prestazioni sociali saranno sempre più limitate. Pensioni e assistenza sanitaria, con l’invecchiamento della popolazione ne risentiranno parecchio.

Tutto questo si scontra fortemente con una bassissima cultura finanziaria, che porta ad avere il 24,5% del patrimonio finanziario delle famiglie italiane (pari a 1.153 miliardi alla fine del 2023) sui depositi bancari con rendimenti vicini allo zero: 0,21% il tasso di interesse medio sui conti correnti nel 2023 rilevato dalla Fabi.

Ma vale la pena risparmiare se poi lascio a “dormire” le somme accumulate con grande fatica?

Nel conto va inoltre considerato che negli ultimi tre anni c’è stata un’inflazione importante (circa il 16,4% nell’area euro) che aggrava l’analisi, in quanto a questo punto non si parla più di mancato guadagno, ma di una perdita di potere d’acquisto molto importante. Nel 2024 ho necessità di maggiore capitale rispetto al 2021 per acquistare gli stessi beni e quindi, se non ho messo a frutto i miei risparmi, è come se avessi una perdita.

Nei decenni passati l’italiano medio trovava nell’investimento immobiliare la migliore soluzione, attraverso l’acquisto di appartamenti per poi affittarli.

Ora questo investimento raccoglie minore interesse perché ci sono alti costi di gestione, sono cresciute le imposte e le tasse e considerata la riforma del catasto voluta dal governo Draghi che modificherà radicalmente il metodo di calcolo delle rendite catastali passando da un conteggio basato su vecchi parametri ad uno che esprime il valore effettivo di mercato degli immobili, le cose non miglioreranno di certo.

Inoltre, la locazione è oggetto di una sempre maggiore conflittualità, sia al momento dell’incasso degli affitti che in occasione della restituzione dei locali alla scadenza del contratto.

Del resto, la scelta di buttarsi sull’investimento immobiliare è dovuta al fatto che in passato sono stati pochi gli istituti finanziari che hanno messo il cliente nelle condizioni di avere la capacità di valutare in modo razionale, competente e consapevole le possibili soluzioni d’investimento. Fino a quando gli operatori finanziari, siano banche o reti di vendita fuori sede, saranno remunerati in base al prodotto collocato e non dall’attività di consulenza erogata, il conflitto d’interessi è talmente elevato che non ci potrà essere un miglioramento della cultura finanziaria nel nostro Paese. Ora, grazie alla normativa sulla trasparenza e alla maggiore disponibilità di strutture indipendenti, i risparmiatori possono disporre d’informazioni migliori ed in effetti queste strutture che svolgono la vera attività di consulenza presentano dati in crescita rispetto alle strutture tradizionali.

Paolo Leonardi