Infanzia: età favolosa, età negata
Negli elenchi del bottino fatto ad Auschwitz dalle SS ho letto la distinta di oltre 90 mila capi di vestiario dei bimbi ebrei uccisi.
Non sono invece inventariate le centinaia di bambole di pezza, di cavallucci, di giocattoli in legno che vennero strappati ai piccoli destinati alle camere a gas. La grande vetrina del campo di concentramento, che oggi espone quegli oggetti, ti strappa il cuore.
L’infanzia, anche in un passato cosi recente, ha sofferto queste strettoie. Nei tempi andati il bambino normalmente non valeva per sé stesso, ma come scommessa sul futuro. In tutti i sensi, visto che oltre il 50% dei nati non arrivava all’anno di vita.
Fino al nostro secolo – sessanta, settant’anni or sono – il piccolo è il centro della famiglia, come si può notare quasi simbolicamente nelle vecchie fotografie; ma un centro che è oggetto di investimenti d’ogni genere: affettivo, di sicuro, ma anche economico, educativo, ereditario, produttivo, lavorativo.
Il bambino “non si amava come individuo, ma come figlio che doveva continuare la sua famiglia” (H. Brulard).
Durante la prima metà del secolo scorso, del bambino si impadroniscono i poteri forti: egli non appartiene più solo ai suoi parenti: è il futuro della nazione e della razza, il cittadino e il soldato di domani.
Per chi non è della partita, come fu per gli Ebrei e gli zingari nel periodo nazista, c’è solo l’annientamento.
Ma queste sono le aberrazioni della storia, che per fortuna, almeno nell’Europa occidentale, è cambiata. Non così purtroppo nei Balcani e nel Terzo Mondo.
Quando – ed avviene ai nostri giorni – viene meglio curato, più coccolato, più amato e ben vestito, succede che il bambino diventa sempre più raro.
Durante l’800, ma era una tradizione millenaria, la primissima infanzia era affidata alle donne; le faccende della nascita sono un fatto rigorosamente femminile, da cui gli uomini vengono esclusi. Nei primi tre-quattro anni di vita il look dei maschietti e delle femminucce risulta quasi identico: capelli lunghi, sottanina, nastri. Ed i giocattoli sono comuni. “È quanto si racconta della futura imperatrice d’Austria nel secolo precedente”: cavalli, marionette, trottole, birilli di legno e cartone pressato. Le sue bambole sono di pezza imbottita… – (E. Ferri, “Maria Teresa Una donna al potere”, Cles 1994, pag. 21).
I giocattoli sono sparsi dappertutto in casa, ma specialmente nel “regno delle donne”, la cucina. Se in città ormai i negozi offrono tale merce in abbondanza, nei paesi di montagna papà e mamma costruiscono da soli gli oggetti per lo svago dei loro bambini. E Natale è un’occasione buona, per la mamma di Pejo, di fare un vestitino nuovo alle bambole delle figliolette.
Ma l’infanzia non è soltanto gioco: i bambini prendono spesso le botte e, in particolare nelle case contadine, i colpi piovono e le sculacciate fan parte del sistema educativo. Ai maschietti, che cominciano a frequentare la scuola, la rasatura a zero risparmia le tirate di capelli che per le bambine sono all’ordine del giorno.
I piccoli vengono su alla spartana, fra molte promesse e qualche gratifica: il papa prende con sé il figlio nei campi e gli assicura che lo porterà alla caccia in montagna; le femmine invece, e precocemente, imparano a dare i primi punti sull’imparaticcio.
La mamma è in ansia per il corredo, e quindi bisogna cominciare presto a ricamare, a cucire, a stirare.
II bambino nonostante tutto però è molto amato; resta sempre anche un investimento per l’avvenire della casa. Che tragedia, quando un piccolo si ustiona con l’acqua bollente, o annega nella fontana, o si ferisce mortalmente con qualche utensile.
II papà non perdonerà più alla moglie, colpevole, secondo lui, di non aver sorvegliato abbastanza, di essere in fondo colpevole dell’incidente. E spesso le mamme vivevano del rimpianto per i loro bambini morti.
Per chi sopravviveva alla falcidia delle convulsioni, della difterite, della tosse, degli infortuni l’infanzia era un momento privilegiato dell’esistenza. In senso un po’ diverso da quello attuale: “talvolta oggi si trasforma il piccolo in un idoletto, al quale si sacrifica moltissimo denaro, ma al quale spesso si dona poco affetto, poco tempo, scarsa attenzione e non di rado anche pochissimo rispetto, demandando al nido, all’asilo, alla scuola responsabilità ed attenzioni che un tempo erano esclusivamente della famiglia”.