Carlo Claus, alpinista accademico del CAAI
Testimoniando una squisita sensibilità, nel giugno scorso la Sezione SAT APS di Cles ha organizzato una serata in onore di un suo Socio decisamente “speciale”, ovvero di un alpinista tanto grande quanto modesto e schivo: Carlo Claus.
Noneso “acquisito”, egli rappresenta quella generazione avventurosa che ha segnato le stagioni migliori dell’arrampicata e dell’esplorazione; una stagione di straordinaria potenza e di pari umanità, dove la tecnologia non aveva ancora preso il sopravvento su ogni altra componente dell’alpinismo.
Carlo Claus nasce il 6 dicembre 1926, il giorno di Santa Klaus e cresce in una solida famiglia contadina di Lavis; una famiglia che è un tutt’uno con la terra dalla quale ricava sostentamento. “Magari mancava zucher o sal, ma qualcoss en taola ghèra sempre!” Così ricorda la sua infanzia felice di non avere nulla e, proprio per questo, consapevole di stringere fra le mani il mondo intero. Carlo è un ragazzo curioso; uno che impara ad imparare e così, ben presto, affronta i drammi di un’epoca percorsa dalla guerra e delle difficoltà, traendone lezioni fondamentali. “Alambicca” di contrabbando e poi raccoglie le schegge delle bombe americane e ogni altro materiale ferroso, per potersi comperare quella bicicletta che gli aprirà gli orizzonti della montagna. Dal fortuito incontro con due grandi dell’arrampicare di allora – e cioè Elio Andreatta e Marino Stenico – nasce una passione che, nutrita di amicizia profonda, lo porta sulle pareti più ardite. Corde di canapa e staffe, fatte in casa. Con Marino Stenico “sulla ovest di Lavaredo” e poi, anche con Elio Andretta, “le Tofane, il Sella, il Catinaccio, il Sassolungo, il Civetta e le più complesse vie dolomitiche”, mentre la passione dell’arrampicata lo travolge irrimediabilmente.
Il mestiere di idraulico gli consente quella libertà di scelta del tempo che è necessaria per soddisfare l’urgenza dell’alpinismo e così, ogni martedì sera, Carlo frequenta l’appuntamento programmatico per il fine settimana con rocciatori come Gino Pisoni, Emilio e Settimo Bonvecchio e Cesare Maestri. Grandi scalate e sentimenti veri che uniscono e cementano amicizie preziose. E così Carlo diventa il “secondo” di Cesare Maestri e con lui va perfino sul “Cerro Torre”, in quell’ascensione tanto discussa per l’uso del compressore. Ai piedi di quella montagna, eretta come un antico druido a custodia di terre che celano i segreti degli dèi; una montagna che sfida e che spaventa l’individuo, perso davanti a tanta immensità, Carlo sfodera tutta la sua naturale semplicità: “’Na volta che se è lì soto, tanto val nar su!”. Così. Semplicemente. Come salire le scale di casa. Questo è l’alpinismo di allora., Autentico e privo di ogni retorica.
Nel frattempo i suoi occhi azzurri si sono intrecciati con quelli di Angelina. Un amore vero, intenso e solido come il granito dei percorsi più verticali. Un amore corrisposto nelle lunghe attese, nelle paure, nei silenzi delle notti solitarie. Un amore sedimentato e forte, che darà frutti: Elisabetta, Giuseppe ed Andrea e poi nipoti, sorrisi ed affetti. Un amore, infine, che lo porta a Cles.
Carlo Claus continua a salire, finché stupisce perfino sé stesso. “Il Campanile e gli Strapiombi di Val Montanaia” li percorre tre volte consecutive in un giorno, per aiutare qualcuno, bloccato in parete. In un’intervista Carlo commenta così quell’impresa titanica: “L’è ben stà bel. Ma ero en migol strac ala fin!”. Ancora naturale semplicità, sparsa a piene mani. Nel 1958, a Cortina d’Ampezzo, viene nominato “Accademico del C.A.I.”: il più alto e prestigioso riconoscimento dell’alpinismo. Poi, nel ‘69, l’Himalaya che è un altro mondo, con pareti che sprofondano in vertigini assolute.
E poi ancora l’avventura in Africa, dove attraversa il Tenerè ed il deserto libico, ma non dimentica mai la passione che spingeva la bicicletta verso la Marmolada, quando ci volevano tre giorni per completare l’ascensione e far ritorno a casa.
La montagna lenta di allora costruiva amicizie, trasmetteva valori e disegnava profili che sapevano di eterno, mentre adesso Carlo sa che la velocità della tecnica sta macinando ogni cosa, triturando un modo di essere e di vivere senza proporre credibili alternative e lasciando solo un vuoto dove l’uomo si perde.
Carlo vive da molti decenni a Cles ed a questa terra di storia e fatica si è legato con una intensità piena e totale, come tutto ciò che ha fatto nella sua esistenza così ricca di esperienze e di curiosità. Ovunque ha lasciato un segno indelebile di calda umanità e di una serenità che è carattere distintivo di chi non chiede, ma offre.
Cles ha accolto e sentito come un suo figlio quel volto, incorniciato da una candida barba che profumo di bontà, riconoscendo in Carlo Claus l’uomo giusto che è: “nient’altro che un uomo giusto, capace di seguire le sue passioni e di farne un canto infinito, insegnamento indispensabile per tutti noi”.