Pane e lavoro
Il periodo tra la metà del 1800 e i primi anni del 1900 si contraddistinse particolarmente per le pestilenze, le calamità atmosferiche e per la carestia.
L’epidemia di colera nel 1855 colpì molti paesi della nostra Valle aggiungendo una serie di lutti alla già grande miseria. L’economia basata essenzialmente su un’agricoltura di sussistenza era poco redditizia, sia per l’eccessiva parcellizzazione del terreno, sia per la mancanza di concimi e di antiparassitari.
In famiglia non si spendeva molto, ma anche le entrate erano scarse. Gli introiti, ricavati dalla vendita del vino e dei bozzoli, si ridussero drasticamente col manifestarsi dell’oidio e della peronospora che devastarono quasi tutti i vigneti.
Come se ciò non bastasse, si aggiunse la pebrina che cancellò la bachicoltura della zona.
Molte persone, con l’acqua alla gola, caddero nelle mani di persone disoneste. Come antidoto a questa grave situazione, sul progetto di don Guetti, sorsero le prime Famiglie Cooperative e le prime Casse Rurali.
Presso queste associazioni si poteva almeno dilazionare i pagamenti concernenti la spese alimentari o accedere a dei prestiti ad un tasso onesto.
Per risparmiare soldi si cercava di ridurre le bocche da sfamare mandando i ragazzi a lavorare, come garzoni, presso famiglie benestanti (boiar), oppure come spazzacamini nell’Italia centrale.
Altra soluzione adottata era l’emigrazione stagionale all’interno dell’Impero oppure all’estero.
Terminati i lavori agricoli, molti abitanti delle nostre valli si recavano in Tirolo o in Svizzera come falegnami o muratori; dalla valle di Sole partivano i “paroloti”, dalle Giudicarie i “caregheti”. Gli emigranti stagionali del Tesino, invece, si specializzarono nella vendita di stampe e “santini”. Alcuni di loro giunsero fino a Parigi, Mosca e Pietroburgo.
Anche dalla val Rendena, alla fine dell’estate, partivano numerose persone. In genere si trasferirono verso la pianura padana per esercitare diversi lavori, soprattutto quello del “moleta”.
Ad esempio, fra la fine del Cinquecento e i primi del Novecento, diverse migliaia di lavoratori rendenesi si trasferirono temporaneamente nella zona di Mantova. Alcuni, come detto più sopra, praticavano l’arte del “moleta” mentre altri svernavano lavorando come facchini al Porto Catena; altri, invece, come taglialegna oppure come segantini.
In caso di necessità emigravano pure le loro donne che si guadagnavano il pane lavorando come serve o fantesche presso le famiglie benestanti. A Mantova i Rendenesi diventarono quasi una piccola comunità, tanto che nel 1604, il giorno 11 novembre, fu stipulato un accordo tra il vescovo Francesco Gonzaga e gli abitanti di Pinzolo per concedere alle persone che lavoravano in quella città un posto dove pregare e dove essere sepolte in caso di decesso.
Per esaudire tale richiesta fu concesso loro l’uso di un altare presso la chiesa di san Martino, in via Pomponazzo, dove celebravano la loro messa e accanto un pezzo di cimitero per le sepolture. Questo fu utilizzato dai membri della comunità trentina fino al 1790.
Gli stessi operai, per un certo periodo, ebbero anche l’assistenza spirituale di un sacerdote stabile inviato appositamente per loro dalla curia di Trento.
Verso la metà del 1800, in seguito ai grandi lavori di arginazione dei fiumi e alla costruzione della ferrovia del Brennero, si presentò per i nostri conterranei una nuova opportunità di guadagno.
Gli operai addetti alla costruzione della ferrovia venivano chiamati “aizimponeri”. Erano molto apprezzati dai propri imprenditori ma, spesso, erano anche molto malvisti nei loro paesi (soprattutto dai parroci) perché tornavano con idee nuove che, alle volte, s’ispiravano al socialismo o all’ateismo.
Dimostravano, inoltre, una mentalità e moralità molto più libera. Questi impieghi consentivano un discreto guadagno e permettevano di portare a casa qualche quattrino.
C’era, però, anche una contropartita; la continua emigrazione di valide forze giovanili depauperava seriamente la società locale.
Il trentennio dal 1880 al 1910 fu contrassegnato ancora da una nuova opportunità di lavoro, sempre all’interno dell’impero austroungarico, che indusse molti nostri compaesani a lasciare la loro famiglia per cercare nuova fortuna.
In quel periodo, infatti, il Voralberg fu caratterizzato da una notevole espansione edilizia e dall’apertura di parecchie industrie tessili. Ciò comportò una notevole richiesta di manodopera che coinvolse non solo i maschi ma anche le femmine che prestarono il loro servizio come operaie nelle fabbriche.
Le condizioni di lavoro non erano ideali. La loro paga era ridotta di una metà o due terzi rispetto a quella degli operai locali. Anche l’integrazione sociale risultò problematica. I Trentini, chiamati “welschen”, erano considerati come degli ubriaconi, come della gente sporca e degli attaccabrighe.
Nonostante questo, il flusso migratorio non diminuì ma, anzi, crebbe nel tempo. Infatti, nel 1880 i Trentini emigrati nel Voralberg erano 1.428, mentre nel 1910 erano ben 9.277. Poi con l’avvento della prima guerra mondiale questo fenomeno cessò definitivamente. Esisteva pure un’emigrazione permanente europea che, sempre nel 1910, assommava a 19.292 persone pari al 6,39 % della popolazione trentina e una transoceanica formata da 3.153 individui pari al 1,69%.