Passaggio generazionale delle aziende
Il patto di famiglia
Il passaggio generazionale è da sempre uno dei momenti più delicati nella vita di un’azienda, e deve essere gestito con estrema attenzione per consentire all’impresa di continuare a prosperare. Al fine di agevolare tale passaggio nel corso del 2006 il Legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento il c.d. patto di famiglia, un negozio giuridico a titolo gratuito che consente al titolare di un’impresa o di partecipazioni sociali di trasferire la propria azienda o le proprie quote societarie ai discendenti o al discendente che si sia dimostrato maggiormente idoneo alla gestione dell’impresa. L’art. 768 bis c.c. stabilisce infatti che il patto di famiglia è “il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti”. Attraverso tale negozio l’imprenditore potrà quindi trasferire ai propri discendenti l’azienda in toto o in parte, in tale ultimo caso però, la cessione dovrà avere ad oggetto un complesso di beni idoneo a garantire al beneficiario l’esercizio dell’attività di impresa.
Con l’introduzione di tale strumento il Legislatore ha voluto consentire all’imprenditore di anticipare gli effetti della successione e di programmare il “passaggio generazionale” all’interno della propria azienda, prevenendo il radicarsi di liti ereditarie, ed evitando che tali beni finiscano nelle mani di soggetti incapaci di assicurare la continuità aziendale.
La normativa dettata in materia di patto di famiglia deroga a uno dei principi cardine del nostro diritto successorio, ossia al c.d. divieto di patti successori stabilito dall’art. 458 c.c.. Tale norma, infatti, prevede che, fatta salva la disciplina dettata in materia di patto di famiglia dagli artt. 768 bis e segg. c.c., “è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione. È del pari nullo ogni atto col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinunzia ai medesimi”.
Tale specificità giustifica la cautela avuta dal Legislatore nel disciplinare la materia. Innanzitutto la stipula di un patto di famiglia deve avvenire a pena di nullità per atto pubblico, e pertanto necessariamente dinanzi ad un notaio. A tale atto, oltre all’imprenditore ed ai discendenti cui quest’ultimo intende lasciare l’azienda o le proprie partecipazioni sociali (c.d. “assegnatari”) dovranno necessariamente partecipare anche il coniuge dell’imprenditore e tutti i soggetti che avrebbero la qualifica di legittimari se, in quel momento, si aprisse la successione testamentaria del disponente. La mancata partecipazione al patto di tali soggetti, o di alcuni di essi, per la dottrina maggioritaria potrebbe comportare la nullità del negozio.
Il coniuge dell’imprenditore disponente ed i legittimari che non rivestono la qualità di assegnatari dell’azienda e/o delle partecipazioni sociali hanno diritto, salvo loro espressa rinuncia, a percepire dagli assegnatari una somma a titolo di “liquidazione” della quota di legittima loro spettante sull’azienda e/o sulle partecipazioni sociali oggetto di assegnazione. Tale liquidazione, oltre che in denaro, potrà avvenire anche in natura, mediante il trasferimento di beni mobili e/o immobili. È stato altresì previsto che la liquidazione possa avvenire anche mediante un contratto successivo rispetto al patto di famiglia, che dovrà però essere sempre espressamente collegato a quest’ultimo.
I beni assegnati al coniuge ed ai legittimari non assegnatari a seguito della stipulazione del patto di famiglia sono imputati alle quote di legittima di tali soggetti, secondo il valore agli stessi attribuito pattiziamente.
È stato poi espressamente previsto che quanto ricevuto da chi ha partecipato a tale negozio non potrà essere oggetto di collazione o di un’azione di riduzione. Pertanto i legittimari, partecipando alla stipula del patto di famiglia, rinunciano di fatto a partecipare alla successione ed alla divisione ereditaria sui beni costituenti l’azienda e/o sulle quote sociali oggetto di tale contratto.
Vi sono poi forti limitazioni alla possibilità di impugnare il negozio in parola. Il patto di famiglia potrà infatti essere impugnato solamente per i c.d. “vizi del consenso”, ossia per errore, violenza e dolo. Tale possibilità di impugnazione è data a tutti coloro che hanno partecipato alla stipula dell’atto, ma potrà essere esercitata solamente nel ristretto termine di un anno.
Il coniuge ed i legittimari che non hanno partecipato al patto di famiglia (es. il figlio dell’imprenditore nato dopo la stipula del patto, il nuovo coniuge del disponente), qualora l’imprenditore sia nel frattempo deceduto, potranno chiedere ai beneficiari di tale negozio la corresponsione della somma che sarebbe loro spettata qualora avessero partecipato al patto, maggiorata degli interessi legali. Qualora tale importo non venga versato il patto di famiglia potrà essere oggetto di impugnazione, ma anche in questo caso nel ristretto termine di un anno.
Da ultimo, è bene osservare come lo scioglimento o la modificazione del patto di famiglia potrà avvenire solamente con la partecipazione delle stesse persone che hanno concluso il negozio in parola. Nello specifico, lo scioglimento e la modifica del contratto de quo potranno avvenire solamente attraverso un nuovo patto di famiglia, o mediante l’esercizio del diritto di recesso, qualora tale possibilità sia stata espressamente prevista nel contratto, mediante apposita dichiarazione certificata da un notaio da inoltrare agli altri contraenti.