“ERA LUGLIO” mi ricordo che…
Luglio: sinonimo di afa estiva. I paesi durante l’ora della canicola sembravano ingessati. Tutto era fermo; nessuno si muoveva.
Le strade e le piazze erano deserte. Era sparito il solito cigolio dei carri sulle strade. Le mucche non muggivano più; stavano beatamente ruminando sdraiate nelle loro stalle.
Si udiva solamente il frinire dei grilli e delle cicale. Eppure la vita c’era. Sulle fresche “are” o sui “somassi” si radunavano le donne e gli uomini per riposare e conversare fra loro. Come si stava bene all’ombra e al fresco! Alle volte, non di rado, invece si vedevano delle ragazzine sotto il sole cocente, con le trecce sciolte, ferme, ad asciugarsi i cappelli. Il phon, allora, era solamente naturale; quello elettrico non era ancora nato! A loro, le mamme avevano appena lavato la testa per liberarle dai fastidiosi pidocchi.
Quel parassita sgradevole incollava le sue uova (lendini) ai capelli e non si staccavano né con l’acqua, né con la spazzola. Serviva l’acido acetico. Per questo motivo le mamme le eliminavano lavando la testa alle figlie usando acqua e aceto. Una volta asciugata, “strigliavano” vigorosamente la chioma con un pettine a denti fitti (petenina) per asportarne le scorie. La mentalità di allora associava la presenza dei pidocchi alla sporcizia, pertanto la corretta igiene della testa diventava anche una questione di prestigio sociale.
Un altro ectoparassita fastidioso era la cimice. Viveva fra le cuciture de vestiti o in microambienti (es. fessura del letto). Si nutriva del sangue umano. La sua puntura produceva dei rigonfiamenti rossastri sulla pelle accompagnati pure da un forte prurito. L’unico rimedio, per eliminarli era il calore. Per questo motivo le massaie usavano immergere i vestiti in capienti pentoloni di acqua bollente.
Nel primo dopoguerra comparve sul mercato un antiparassita. Era stato scoperto negli Stati Uniti nel 1939; si chiamava il D.D.T. Fu un toccasana. In poco tempo il problema fu risolto. Più tardi, però, vennero scoperti anche i suoi effetti cancerogeni e pertanto, nel 1978, in Italia, ne fu proibito l’uso e fu tolto dal commercio.
Luglio era anche il mese delle mosche.
Si trovavano dappertutto. In casa erano un tormento. Si posavano sulle gambe, sulle braccia sui cibi. Lasciavano dei puntini neri, segno inequivocabile del loro passaggio.
Per eliminarle, in cucina, nei mesi estivi, si attaccavano al piatto della luce, delle strisce di carta lunghe mezzo metro e larghe cinque centimetri, di colore giallo ocra, ricoperte di una sostanza vischiosa. Erano trappole per le mosche. Queste, attratte dall’odore, vi si posavano sopra e vi rimanevano appiccicate. La carta moschicida, appesa al paralume, era funzionale, ma gli insetti agonizzanti restavano giornate intere in bella vista cadendo, alle volte, anche nei piatti. Si creava un “cimitero delle mosche” esteticamente poco piacevole.
Subito dopo la seconda guerra arrivò dall’America il primo insetticida della storia: il Flit. Si usava nei mesi estivi spruzzando il prodotto con una pompetta dopo aver chiuso porte e finestre. Era molto potente e dannoso per le persone. Dopo averlo nebulizzato, bisognava correre verso l’uscio e, per un po’ di tempo allontanarsi dal locale. Questo inconveniente dava alle donne un ulteriore pretesto per fermarsi qualche momento in più sui “somassi” a chiacchierare con i vicini di casa. Questa pausa, però, era anche una buona occasione per riposare.
Luglio portava con sé il gravoso compito della mietitura.
Il lavoro iniziava verso la metà del mese e coinvolgeva tutta la famiglia.
Le verdi spighe, inframmezzate dai rossi papaveri e dai celesti fiordalisi, ondeggianti al vento, all’improvviso diventavano dorate e pronte per essere tagliate.
Le donne, per evitare la calura estiva e per essere a casa in tempo a preparare il pranzo, si recavano nei campi già alle quattro o alle cinque del mattino. Stavano per ore e ore chine, con un falcetto in mano a mietere il frumento, l’orzo, la segala o l’avena.
Per ripararsi dalle punture delle spighe si coprivano tutto il corpo con giacche o maglie. Gli uomini, dietro di loro, legavano i mannelli e poi li ammassavano in ampie biche. Successivamente, caricavano tutto sui carri. Portavano il raccolto a casa e lo stivavano nelle soffitte. Dopo un po’ di tempo le “mandele” erano stese sulle “are” o sui “somassi” e qui venivano battute con il correggiato (fler).
Terminata questa operazione, i chicchi erano vagliati con il “val” o “sdraz” per separare il grano dalle impurità.
Più tardi al posto del setaccio fu introdotto il mulino ventilatore (molin a vent) che, per mezzo delle pale rotanti, fatte girare con una manovella, separava il grano dalla pula. Verso gli anni 1950/60, complice il progresso, arrivò nei nostri paesi anche la macchina trebbiatrice gestita da privati.
Veniva sistemata in mezzo alla piazza e lavorava il frumento di tutti i contadini del paese. Per quei tempi era modernissima perché riusciva a eseguire diverse operazioni contemporaneamente.
Quelli erano giorni di gran movimento. Sulle strade si vedevano lunghe file di carri, colmi del biondo cereale, in attesa del proprio turno.
Sulla zona regnava un gran polverone. Alla fine, i contadini tornavano a casa contenti e soddisfati, portando sul carro, come un trofeo, i sacchi ricolmi del dorato grano. Era il frutto del loro sudato lavoro.
Ci sarebbero ancora tante altre cose da dire, ma il frumento e gli insetti ci hanno rubato troppo spazio.
Ci sentiremo il prossimo mese.