Il mestiere di spazzacamino
Carlo Nicolodi di Mechel, figura recentemente scomparsa, recuperò anni addietro in quel di Smarano un ciclostilato portante la firma dello storico meranese Pietro Fogale, contenente l’intervista fatta a Giovanni Leonardi di Mechel (Canzelini) 25/02/1908 – 13/12/1998, l’ultimo ancora in vita di coloro che avevano praticato il mestiere di spazzacamino. Gli appunti dattiloscritti e ciclostilati sono stati successivamente riordinati e digitalizzati dal suo caro amico Giorgio Leonardi. La foto a corredo dell’articolo è di Enrico Nicolodi.
Nell’articolo che segue ho cercato di riassumere l’intervista, scrivendo in prima persona.
Gli spazzacamini erano detti anche Stoinoti, nome derivante da stoinota, termine per indicare la raspadora (attrezzo per pulire il camino) nel loro gergo, il Taron. Giovanni partì per la prima volta all’età di 12 anni a fine ottobre del 1920 e tornò a casa il 25 febbraio 1921, giorno del suo compleanno. Per sette inverni intraprese questa attività fino al 1928.
L’attività era organizzata in compagnie formate da 6-8 persone, metà padroni e metà garzoni. Il mio padrone era di Tuenno con il quale la mia famiglia fece l’accordo. La zona di lavoro era nell’area di Leno, una cittadina del bresciano. Per arrivarci occorreva un’intera giornata di viaggio. Non avevamo con noi documenti, eravamo privi di tutto.
Giunti al paese di Bagnolo ci si vestiva da spazzacamino e ci si spalmava la faccia con la fuliggine; poi in giro per le contrade chiamando: Spazzacamino!!
La mattina si cominciava digiuni; verso le undici ci si fermava e si andava al panificio a prendere pane, perché quando la gente cucinava non ci lasciava lavorare.
Alloggiavamo nelle grandi cascine ove lavoravano quattro/cinque famiglie alle dipendenze del proprietario. La gente nei nostri confronti era molto accogliente. I nostri luoghi di alloggio erano nei cascinali ove i contadini avevano l’ordine di far alloggiare gli spazzacamini e dar loro della legna.
Alla sera, prima di fare la polenta, quando era ancora giorno bisognava prepararsi il posto per dormire, dove c’era il fieno più adatto. Si faceva un pozzo nel fieno e si entrava fino alla testa. Prima di entrare nel fieno ci si infilava nel sacco degli indumenti, un sacco di cotone grosso (moleton) lungo due metri. Finito di mangiare si andava a filò nelle stalle, le donne filavano dopo aver messo i bambini a dormire.
I vestiti buoni erano depositati nella casa dove ci si cambiava, e non si indossavano più; si tenevano quelli da spazzacamino tutta la stagione fino al ritorno a casa. Prima di tornare si andava nella stalla, si scaldava dell’acqua e ci si lavava nelle brente con un po’ di sapone. Il vestito da spazzacamino lo preparava a casa la sarta. Al termine lo lasciavamo la perché era tutto consumato. I vestiti erano luridi, con quattro/cinque pezze sulle ginocchia, sui gomiti e sulla schiena, e un po’ alla volta si consumavano andando su e giù per i camini. I rammendi si facevano il giorno di festa; prendevamo dei pezzi di vestito e li cucivamo noi sopra le vecchie toppe. Bisognava prima fare i buchi col fil di ferro perché altrimenti non passava l’ago.
Lavorando come garzone si percepiva un piccolo salario, però i padroni guadagnavano di più.
Il primo anno ricevetti duecentocinquanta lire in totale e ho pagato quaranta lire di multa per le assenze ingiustificate a scuola; le mie pagelle lo testimoniano.
Il padrone faceva poco o niente. Si prendeva la fuliggine che poi vendeva ad uso concime a quindici lire il quintale. La fuliggine la raccoglievamo tutta perché andava in vendita e rubavamo anche un po’ di cenere anche se le donne si arrabbiavano, perché a quei tempi serviva come detersivo. Noi parlavamo il bresciano perfettamente come loro e poi avevamo un patua nostro che capivamo solo noi; si chiamava Taron. Lo si parlava solo coi padroni e fra di noi perché così non capivano cosa dicevamo. La gente però non era molto contenta, perché potevamo anche dir male di loro.
In quelle terre vi era ancora parecchio analfabetismo e la gente si stupiva di noi ragazzini che sapevamo leggere e scrivere. C’era un detto ma io non l’ho mai fatto, perché i padroni mi avevano proibito severamente di rubare nelle case. Il detto era: Bercia su sot che stanzia ‘l zigot, zufel e metei in trea che sbarban doman co la reba (guarda in su che appesi al soffitto ci sono i salami, rubali e mettili nella sacca che li mangiamo domani con la polenta).
Il prezzo per la pulizia del camino era di 2 lire per le case, 3 lire per negozi e osterie, e 3/5 lire per i signori. Qualcuno si lamentava; diceva che noi non potevamo “misurar la borsa”. Alcuni che non avevano soldi per pagarci ci davano in cambio la farina da polenta, altri soltanto una lira.
Ho imparato il mestiere da un altro ragazzo che era già pratico. è venuto con me in una casa del paese dove c’era un camino comodo per istruirmi. Dentro al camino io stavo sopra, lui sotto; mi ha spiegato come tenere i gomiti e le gambe e di fare il movimento della rana, un colpo le ginocchia e un colpo i gomiti. Si saliva e si pulivano una o due pareti; arrivati in cima ci si voltava e si puliva il resto. Il mestiere era particolarmente faticoso nei camini stretti. Dopo 4 anni da garzone sono diventato padrone e sono andato con mio fratello. Ho le lacrime agli occhi pensando alle sofferenze subite e non so come mai non ci siam presi nemmeno un raffreddore, perché anche lì faceva freddo, peggio che da noi perché veniva la calabroza (la nebbia) e non si vedeva nemmeno a dieci metri. I soldi guadagnati li portavamo in una banca che conoscevamo; non davano interessi, erano solo custoditi. L’ultimo giorno prima di partire si ripartiva tutto il guadagno.
Negli anni che lavoravo da solo avevo metà parte, i padroni mille lire e io cinquecento.
Per tre anni ho lavorato da solo, facevo da padrone e da garzone, questo dal ‘23 al ‘26. Poi per due anni ho portato con me mio fratello; l’ultimo anno si è ammalato e ho dovuto rimandarlo a casa. Nel ventisette sono partito l’ultima volta spazzacamino e dopo essere tornato nel 1928 sono andato a lavorare alla Cementi di Tassullo detta allora la Porlantica.
Al ritorno in paese non c’erano feste e non portavamo regali. La gente diceva “i e tornadi quelli dall’Italia” perché qui fino al 1918 era Austria. Io ho frequentato per quattro anni la scuola dell’Impero Austro – Ungarico e mi avevano insegnato l’inno austriaco.
Valentino Poletti