Il “Ricettario Fitoterapico” del Barone de Cles

Il “Ricettario Fitoterapico” del Barone de Cles

Bernardo de Cles e l’amore per la conoscenza dei misteri della botanica

Tra il Castello di Cles e i boschi del Monte Peller c’è un singolare “fil rouge” (anche se forse, con licenza poetica, potremmo chiamarlo “fil vert) che lega i due luoghi sotto il segno della botanica. Si dà il caso infatti che uno dei pionieri della botanica moderna, Pietro Andrea Mattioli, vissuto nel XVI secolo, trascorse 14 anni alla corte del Cardinale Bernardo Clesio, in qualità di suo consigliere e medico personale: tra i boschi della Val di Non il Mattioli trovò terreno fertile per i suoi studi naturalistici e fitoterapici, raccogliendo e analizzando molte delle piante officinali che avrebbe poi descritto nei celebri “Discorsi di P. A. Mattioli sull’opera di Dioscoride”, il più rinomato erbario rinascimentale.

Ed è un curioso caso, o forse destino, che proprio Bernardo de Cles, omonimo discendente dell’illustre Principe Vescovo di Trento, abbia in un certo senso portato avanti l’opera del Mattioli, seppure tre secoli più tardi, traducendo la propria innata passione per la botanica nella compilazione di una particolarissima guida alla conoscenza delle piante e del loro uso terapeutico, frutto di lunga ricerca ed esperienza, e in buona parte tuttora valida.

Nato nel 1877 a Vipiteno, Bernardo de Cles trascorse l’infanzia nell’avito maniero di famiglia, frequentando le elementari di Cles e girovagando nei boschi e nelle campagne intorno al Castello, che allora si estendevano fino al torrente Noce. Proseguì gli studi prima al ginnasio tedesco di Trento, poi presso la Scuola Agraria di S. Michele all’Adige, aperta nel 1874.

A cavallo tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del nuovo secolo, Bernardo iniziò ad occuparsi dei terreni di famiglia, impiantando i primi alberi da frutto e creando un proprio vivaio di meli e viti. Col tempo diventò un esperto frutticoltore, e dopo il matrimonio con Erna Romani di Termeno (1911), trasferitosi a vivere nel paese della moglie, iniziò i primi impianti anche nei terreni della famiglia Romani. La sua vocazione venne bruscamente interrotta dallo scoppio della Ia Guerra Mondiale, in seguito al quale venne chiamato alle armi e inviato sul fronte del Tonale, trascorrendovi un lungo periodo.

Terminata la guerra, Bernardo tornò ad occuparsi dell’azienda agricola di Castel Cles fino al 1930, quando ne cedette l’amministrazione ai fratelli Ildebrando e Carlo, e poté così dedicarsi a tempo pieno alla sua passione per la natura e le erbe medicinali. Verso la metà degli anni ’30 frequentò il corso per erboristi presso l’Università di Padova. Nella buona stagione passava settimane in montagna: con i suoi vistosi baffi e la inseparabile pipa, percorreva in lungo e in largo la Val di Non, e nello splendido scenario del Monte Peller e della Val Nana, ove già il Mattioli aveva avuto modo di immergersi nelle essenze guaritrici della natura, raccoglieva le “medicine” per le sue ricette; poi le metteva a seccare negli ampi cameroni disabitati del secondo piano di Castel Cles. La sua stanza era stipata di libri di botanica in italiano e tedesco, che egli, essendo bilingue, studiava indifferentemente. Il nobiluomo anaune morì a Cles il 31 gennaio 1960: fin nei suoi ultimi anni continuò a studiare e raccogliere piante officinali, e a mettere per iscritto quanto aveva appreso nel campo della fitoiatria.

Il “Ricettario fitoterapeutico” di Bernardo de Cles è una raccolta assolutamente originale per impostazione e per contenuto, un lavoro di paziente e minuziosa ricerca condotta nell’arco di molti anni: il manoscritto, privo di titolo, è un registro rilegato e datato 28 novembre 1949, ma è difficile risalire ad una vera data d’origine. Esso raccoglie in ordine alfabetico 390 patologie, e per ognuna di esse un certo numero di ricette fitoterapiche: nel complesso 5696, delle quali alcune non botaniche. In ognuna vengono citate le piante utilizzate, il modo d’impiego e il dosaggio. Si tratta di ricette che oggi qualcuno definirebbe anacronistiche; molte di esse tuttavia sono ancora valide e trovano riscontro nella letteratura. Molte altre vanno ovviamente ricollocate nel tempo e nell’ambiente sociale nel quale hanno trovato credito: esse rispecchiano un’epoca in cui la maggior parte delle patologie veniva curata con piante officinali, e da questo punto di vista rappresentano un’importante testimonianza delle conoscenze e tradizioni popolari del tempo.

Non è infatti nell’efficacia o meno delle ricette del barone Bernardo che va ricercata la validità del suo “Ricettario”: esso è lo specchio di un’epoca, delle limitate capacità di difesa delle persone di allora contro le malattie e del loro bisogno di credere nella possibilità di cure accessibili a tutti. Nonostante nel 1800 si stesse consumando la definitiva scissione tra botanica e medicina, i rimedi popolari trovavano ancora buon gioco all’epoca del barone Bernardo. Questa raccolta stimola interesse anche su un ulteriore piano di lettura, quello delle patologie più diffuse all’epoca del barone: quelle che più affliggevano la gente erano le affezioni della pelle, le ulcere, le piaghe, i vermi, le scrofole, le infezioni, la tubercolosi. Antibiotici e cortisonici non erano ancora entrati nel vocabolario, e le condizioni socio-ambientali non potevano evitare il costante contatto con fattori patogeni sempre presenti.

Opera di grande interesse, il “Ricettario” è insomma un distillato di plurime curiosità che occupavano la mente del barone. Bernardo tradusse e riversò nella sua raccolta ogni sorta di ricetta che quotidianamente gli passava per le mani, che provenisse da letteratura scientifica o da rubriche giornalistiche, da pubblicazioni italiane o da testi tedeschi stampati in caratteri gotici. Nozioni mediche, empirismo, dietetica, naturismo, idroterapia, vecchie pratiche popolari, farmacologia, fitoterapia, tutto concorreva a sostanziare questa sorta di zibaldone che attraversa la storia della medicina intesa nel suo significato più ampio.

“Le ricette fitoterapiche del barone Bernardo de Cles” (2000) è una pubblicazione curata da Bice Bellomaria, Clementina Berdini e Franco Pedrotti con la collaborazione di Fabrizio da Trieste e Michele de Cles. L’opera fa parte di una serie di studi di conservazione della natura, ecologia e cultura naturalistica promossi e realizzati dal Dipartimento di Botanica ed Ecologia dell’Università di Camerino, allo scopo di approfondire e divulgare con contributi originali la questione del rapporto fra l’uomo e il suo ambiente.

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