Il fagiolo nel naso (2° parte)

Il fagiolo nel naso (2° parte)

Tratto dal libro: LA MINIERA DEI BOTTONI

Il fagiolo intanto era sempre li. Respiravo ormai sempre con la bocca, non mangiavo quasi più, dormivo pochissimo e mi girava spesso la testa.  Dopo quello che ci aveva detto il maestro mi convinsi che non mi restavano molte speranze di vita, anzi, avevo forse i giorni contati. Un po’ alla volta mi abituai all’idea di dover morire, ma dentro di me contavo su un intervento del cielo, in poche parole su di un miracolo. In fondo in fondo non ero poi tanto cattiva. Feci comunque un rigoroso esame di coscienza, chiesi perdono a Dio di tutti i miei peccati, strappai il cuore di un quaderno e scrissi:

Cari tutti miei, dopo quello che mi è successo a causa di un fagiolo vi voglio chiedere perdono. Mi dispiace di dover morire, ma il maestro ci ha detto che quelli che si sono messi fagioli nel naso, sono tutti morti. A te Elena regalo quel braccialetto d’oro dell’America che ho nascosto nella fessura più larga del pavimento della camera, quella vicino alla finestra. Per tirarlo fuori prendi un filo di ferro come facevo io. Te lo regalo volentieri perché a me non serve più, ma quando lo metti ricordati di me. La vostra aff.ma Doretta che vi ha sempre voluto bene”.            R.I.P.

Mentre scrivevo mi ero interrotta più volte scossa dai singhiozzi e le copiose lacrime cadute sulla carta avevano reso la lettera quasi illeggibile, ma non ebbi la forza di riscriverla. Scesi in cucina, mi lavai accuratamente e indossai la gonna a pieghe della festa. Poi rifattami le trecce, mi accinsi ad aspettare la morte che secondo i miei calcoli non avrebbe dovuto tardare molto. Mi disposi composta sul letto con le mani intrecciate, esattamente come avevamo fatto altre volte assieme ad Angela quando le nostre rappresentazioni private prevedevano la morte prematura di un personaggio. Andavo spesso con mia madre o con le amiche a benedire con l’acqua santa i defunti del paese e quindi sapevo bene come ci si disponeva in quel momento particolare. Chiusi rigorosamente gli occhi e attesi pregando. Dopo un pò, nascostamente era salita in camera Angela che conoscendo bene la mia situazione, era venuta per alleviare i miei ultimi momenti. Di lì a poco arrivò anche Silvia, amica di secondo grado, ma premurosa e dolce quanto Angela. Vedendomi in quella posizione e sentendo il mio ansimare faticoso, poiché il naso si era ulteriormente gonfiato per il pianto, si convinsero anche loro che stavo proprio morendo. La situazione si stava facendo drammatica e richiedeva un atteggiamento altrettanto drammatico. Prima l’una poi l’altra iniziarono a singhiozzare sinceramente addolorate.

Dovresti ben chiamare i tuoi!” riuscì a dirmi Angela tra una soffiata di naso e l’altra.

L’ho pensato anch’io, ma loro torneranno tardi dalla campagna, penso sia  meglio se mi trovano già morta, tanto non potrebbero far nulla per me. Ho scritto loro una lettera di addio, dimmi se va bene.”

Angela fece per leggerla, ma era tutta macchiata e rinunciò. “E il maestro cosa dirà? Non ditegli vi prego, del fagiolo nel naso perché si arrabbierebbe!” Poi Angela mi chiese se avevo studiato a memoria il brano dei Promessi Sposi. “Sì l’ho studiato ancora la settimana scorsa”, “Io no invece”. dissero loro.

Allora lo recitai più volte perché lo memorizzassero; infine lo ripassammo più volte, tanto per ingannare l’attesa. “Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci e veniva verso il convoglio una donna…

Parlava anche quello di cose tristi, di bambini morti, di carri pieni di cadaveri e così dopo alcune ripetizioni decidemmo all’unanimità di raccontarci cose più allegre. Ma l’evento drammatico che stavamo attendendo non ci ispirava che cose funeste. Angela constatò che mancavano i fiori. Spedì quindi Silvia a prendere delle rose nel suo orto. Rientrò mezz’ora dopo e sistemò i fiori a cornice intorno al letto.

Ecco così stai proprio bene!” mi disse e tese l’orecchio fingendo di aver sentito sua madre che la chiamava. Uscì quindi frettolosamente senza nemmeno darmi l’ultimo addio. Poco dopo mi lasciò anche Angela perché la chiamavano per davvero, dopo avermi abbracciata e aver mescolato le sue lacrime alle mie.

Vedrai che forse succederà un miracolo e domani ci potremo rivedere!” (mi disse uscendo).

Rimasi ancora qualche minuto sdraiata con gli occhi chiusi, ma poi stanca di aspettare mi misi seduta anche perché così mi sembrava di respirare meglio.

Dalla strada mi giunsero i consueti rumori della sera: Lisa che chiamava a raduno le sue galline, Berto che portava le bestie a bere alla fontana, mamme che chiamavano i bambini per la cena. Già la cena e mi chiesi perché mai i miei non fossero ancora rientrati. Era piuttosto tardi e i vicini stavano già portando il latte al caseificio.

Il muggito delle mucche mi ricordò che era mio dovere in caso di ritardi, andare da Bepi uno dei vicini, perché provvedesse lui alle loro necessità urgenti: mungerle e foraggiarle. Corsi quindi ad avvertirlo e gli preparai il secchio per il latte pronto davanti alla porta della stalla e la gerla piena di fieno. Quelle piccole operazioni contribuirono a farmi dimenticare le mie pene e a concentrarmi sulle necessità del momento. Andai in cucina e tentai di accendere il fuoco per preparare la cena.

Mentre armeggiavo alla ricerca dei fiammiferi, mi capitò sotto gli occhi l’uncinetto da maglia di Elena. Come lo vidi, capii che poteva essere la mia salvezza. Mi posi davanti allo specchio e lo infilai delicatamente nella narice fino ad incontrare il fagiolo maledetto. Lo girai lentamente, poi premetti, ma non successe niente. Allora ripetei l’operazione, rischiosa, ma necessaria; era questione di vita o di morte. Dopo alcuni tentativi cominciarono a scendere i primi pezzettini di fagiolo. La salvezza era vicina. Soffiai con vigore chiudendo l’altra narice e infine come per miracolo mi scappò uno starnuto e con lo starnuto usci l’infame legume.Era il miracolo che stavo aspettando. Mi sentii rinascere.

Accesi velocemente il fuoco, sbucciai alcune patate, sbattei cinque uova, andai nell’orto e raccolsi dell’insalata, poi scesi in cantina e spillai una brocca di vinello.

Indossavo ancora il vestito della festa che era in sintonia con il mio stato d’animo finalmente liberato dall’angoscia di dover lasciare questo mondo. Avrei desiderato poter condividere la mia gioia con qualcuno, ma i miei tardavano ancora. Sentivo il bisogno di esternare la mia gioia per il ritorno alla vita. Chiusi le finestre e mi misi a cantare con quanto fiato avevo le canzoni più belle che conoscevo tra cui “Vecchio scarpone, Te Deum, Tantum Ergo e anche Stille Nacht”. Eravamo a fine giugno, ma che importava. Non era poi tanto fuori luogo. Anch’io ero rinata! I miei rientrarono molto tardi e si stupirono di trovare le mucche già munte e nutrite e la cena quasi pronta con tanto di tavolo apparecchiato. Non ero mai stata così premurosa.

Il giorno dopo a scuola, tutti mi corsero incontro, felici di vedermi ancora viva. Non ebbi il tempo di chiarire il miracolo, perché suonò subito il campanello. Stavo disponendo libri e quaderni sul banco, quando la voce del maestro mi fece sussultare.

Doretta, recitami quel brano di Manzoni che parla della peste”. “Della mamma di Cecilia?” chiesi per guadagnare tempo.

Esattamente, spero che tu l’abbia studiato”.

Iniziai con l’incertezza di chi è colto di sorpresa, ma strada facendo acquisii sicurezza, proseguendo sempre più spedita. Il silenzio totale della classe e l’espressione del maestro mi facevano intuire che stavo andando bene. Mi sentii incoraggiata. Il pezzo era lungo, ma riuscii ad andare avanti senza alcun suggerimento cercando di dare espressione a quello che dicevo. Parlava di una donna che sapeva di dover morire e che pur in circostanze diverse dalle mie e certamente più dolorose, aspettava con rassegnazione il verificarsi del fatal momento. Ero appena uscita da un’esperienza che mi permetteva di potermi calare in quei panni e mi calai talmente bene che al maestro gli scappò un “Brava!” E rivolgendosi ai miei compagni di classe aggiunse: “Ecco è così che bisogna recitare e interpretare un brano”. Dai banchi qualcuno sussurrò un “ruffiana”, ma questo non riuscì a scalfire la gioia di sentirmi ancora viva.

(Continua il mese prossimo…)

Antonietta Dalpiaz Breda

admin

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *